Il richiamo dell’arte per riscoprire se stessi

Hisham Matar è uno scrittore libico trasferitosi a Londra, vincitore del premio Pulitzer per la biografia con il libro “Il ritorno” in cui narra le vicende legate alla scomparsa di suo padre per mano della repressione di Gheddafi. Da pochi mesi è uscito per le edizioni Einaudi, “Un punto di approdo”, infelice traduzione del titolo originale “A month in Siena”. Le 100 pagine di questo gioiello letterario sono un piccolo capolavoro di spiritualità connessa con le intime riflessioni ispirate dalla nostra città e dall’arte senese di Duccio, Ambrogio Lorenzetti e Taddeo di Bartolo le cui opere sono state il richiamo per trasferirsi a Siena per un mese nel 2016.
Il diario di quel mese trascorso da solo in un’abitazione del centro storico, si rivela come uno straordinario registro di un viaggiatore che assorbe e rielabora l’anima della nostra città con assoluta precisione, rivelando anche a noi senesi, sensazioni di cui forse non abbiamo più coscienza.
Matar non si limita a visitare quasi quotidianamente le sale del Museo Civico, dell’Accademia Chigiana e dell’Oratorio di San Bernardino per i suoi studi sull’arte senese, ma percorre la città da nord a sud, da est ad ovest, talvolta anche seguendo con discrezione i passi di persone sconosciute: “Come uno scalpellino volevo semplicemente levigare me stesso sugli spazi e le pietre di quella città… la mia bussola poteva essere orientata solo da lei (Siena), dalle sue curve e svolte, dalle sue manovre e decisioni, dai suoi scopi ed i suoi gusti. Siena ha in se stessa la propria stella polare”. Visita il cimitero del Laterino, assiste con riguardo agli allenamenti degli “sbandieratori”: “Non sono rimasto a lungo, perchè c’era qualcosa nello spettacolo che sembrava privato”. Compra le frittelle del Savelli, in un continuo rimando ai ricordi della sua infanzia agli odori e sapori della sua memoria di bambino in Libia.
Lo scrittore osserva luoghi e persone, alla ricerca del senso e del carattere della città intesa come un corpo vitale: la cerimoniosità di alcune donne, i suoni, i silenzi, il riserbo del denaro, il sesso alla superficie di ogni cosa.
La tortuoisità delle strade sfocia improvvisamente in Piazza del Campo, un luogo dove il riserbo e la discrezione hanno fine. Uno spazio in cui si ha la sensazione di essere attesi, un palcoscenico in cui “nessuno rimane nascosto”, un luogo fatto “per ricordare a tutti gli esseri solitari che non è bene nè possibile esistere interamente da soli”.
Non manca, in queste poche ma preziosissime pagine, il riferimento al Palio e al mondo delle Contrade, ma è straordinario apprenderne la modalità con la quale avviene il contatto, e cioè attraverso uno straniero come lui, Adam, un arabo che ha incontrato casualmente e che lo ha invitato a casa sua.
Quando a questo emigrante giordano traferitosi a Siena trent’anni prima con la moglie, nacque un figlio, trovò sul portone di casa un fiocco azzurro ed il Priore della Contrada in cui abitava lo contattò per far battezzare laicamente il neonato alla fontanina. Il racconto dell’amico giordano è un meraviglioso esempio di inclusione e civiltà che le nostre Contrade hanno ancora la forza di immettere in questo mondo travagliato da sentimenti di odio e paura nei confronti degli “altri”.
Non manca – coincidenza involontaria con quanto stiamo vivendo adesso – un capitolo dedicato alla peste nera del 1348 ed ai suoi effetti nefasti per tutto il mondo allora conosciuto: “A molti artisti, la rappresentazione della morte cominciò a sembrare un rito di passaggio, un duro addestramento alla mortale fragilità della vita umana, una finestra sulla fuggevole transitorietà dello spirito.”
“Un mese a Siena”, trascorso non da semplice turista. Matar ci rivela, semmai ce ne fosse ancora bisogno, quanto siano lontane dall’essenza stessa di Siena, le scelte amministrative verso un’omologazione turistica di massa che stanno modellando la nostra città ormai da troppo tempo.
Ma non è troppo tardi per ricollegare tutti i fili. Matar ci offre una chiave di lettura che possiede ancora una valenza molto radicata, al di là di ruote panoramiche e trenini: ripartire dalla spiritualità che lo scrittore libico, sebbene di fede musulmana, ha saputo cogliere nella pittura di Duccio e Ambrogio e rivolgere al mondo un messaggio universale di fede nell’uomo e di civile convivenza.

Giovanni Gigli