Mario Vargas LLosa, la difesa di una festa

A molti senesi il paragone Corrida-Palio non piace e questo è legittimo. “Nel Palio si ricerca la vittoria non la morte dell’animale” ” A Siena il cavallo è amato nella Corrida si uccide” etc. etc. Personalmente la penso diversamente e concordo pienamente con gli argomenti proposti sul “Corriere della Sera” dal noto scrittore sudamericano Mario Vargas Llosa a difesa della tradizione della tauromachia. Per fortuna, in temi così spinosi che contrappongono in maniera netta due visione diverse del rapporto tra tradizione e tutela degli animali, scatenando aspre polemiche sulla morale, su ciò che è bene e ciò che è male, intervengono noti intellettuali di cui è indubbia la buona fede e la capacità di analisi. Vargas Llosa dice tra l’altro “… la Corrida per alcuni può rappresentare una forma di alimento spirituale ed emotivo tanto intenso e arricchente quanto un concerto di Beethoven, una commedia di Shakespeare o un poema di Vallejo. Nessuno può negare che la corrida di tori sia una festa crudele. Ma non lo è meno di altre infinite attività e azioni umane che riguardano gli animali, ed è una grande ipocrisia concentrarsi proprio sulla prima, e dimenticarsi od ostinarsi a non vedere queste ultime. Chi vuole proibire la tauromachia, in molti casi, e adesso nel caso di Barcellona, lo fa solitamente per ragioni che hanno a che fare più con l’ideologia e la politica che con l’amore verso gli animali”. Se il Palio ha un difetto è quello della comunicazione. Nella città dei mille giornali, nella città della facoltà di Comunicazione e dei mille addetti stampa, al Palio manca la comunicazione esterna della propria festa. Il Palio è una forma di alimento spirituale esattamente come la Corrida (d’altra parte le cacce ai tori rientravano nella tradizione senese) e come per la Corrida, chi vuol vietare il Palio compie un atto contro la libertà nascondendosi dietro il paravento della crudeltà verso gli animali. Nel Palio il fine non è uccidere i cavalli ma può succedere che ciò accada. Nella Formula 1 il fine non è uccidere il pilota ma può accadere che muoia, così come nel calcio, nel ciclismo nel polo, nel salto agli ostacoli etc. etc. E’ lecito usare un maiale o un aragosta per mangiarlo (e quindi sicuramente ucciderlo, anche sadicamente) ma non è lecito usare gli animali per avvenimenti che hanno radici antiche e fanno parte della cultura dell’occidente e della democrazia. Scoprire che dietro queste feste può scorrere il sangue ed è presente la morte fa parte della nostra cultura e della condizione umana. A Siena si cerca di nascondere a tutti questo lato oscuro della nostra festa mentre sappiamo bene che è un elemento, seppure non voluto, ma sempre presente, come è presente nella nostra vita. Se non usciamo allo scoperto con questi concetti come possiamo essere credibili quando l’inevitabile accade? Pensiamo che le lezioncine propedeutiche propinate annualmente durante le dirette Rai possano essere di qualche aiuto? Vargas Llosa chiosa l’articolo con un concetto illuminante: “Proibire i tori non attenuerà in nessun modo questa verità e, oltre a distruggere una delle manifestazioni più audaci e appariscenti della creatività umana, riorienterà la violenza ristagnata nella nostra condizione verso forme più crude e volgari, e magari verso il nostro prossimo. In effetti, perché inferocirsi contro i tori se è molto più eccitante farlo con i bipedi in carne e ossa che, per di più, strillano quando soffrono e in genere non hanno corna?” Proibiamo la Corrida, proibiamo il Palio e finiremo tutti di soffrire. Sarebbe troppo facile.
Giovanni Gigli

Per la libertà della corrida: le ragioni di una festa crudele
di Mario Vargas LLosa (tratto dal Corriere della Sera del 16 maggio 2010)

L’intento di proibire le corride di tori a Barcellona ha avuto ripercussioni in mezzo mondo e, nel mio caso, nelle ultime settimane mi ha coinvolto in polemiche in difesa della festa dei tori in tre Paesi diversi, davanti agli infuriati detrattori della tauromachia. La discussione più accesa è avvenuta nella notte di Santo Domingo — una di quelle sere stellate, di brezza soave, che danno ristoro al viaggiatore nella canicola del giorno —, nel cuore della Città Coloniale, nella terrazza di un ristorante da cui non si vedeva il mare vicino, ma lo si poteva ascoltare. Qualcuno ha lanciato la discussione e la signora a capotavola, fino a quel momento un modello di gentilezza, intelligenza e cultura, si è trasformata. Tremante d’indignazione, ha cominciato a inveire contro coloro che godono di questo indicibile spettacolo di pura barbarie, erede di atrocità come quelle che infervoravano le moltitudini nei circhi romani e nelle piazze medievali in cui si bruciavano gli eretici.
Quando io le ho assicurato che la delicata aragosta che lei stava facendo fuori in quello stesso istante e con evidente diletto era stata vittima, prima di finire sul suo piatto e tra le sue papille gustative, di un trattamento infinitamente più crudele di un toro da combattimento in un’arena, e senza la benché minima possibilità di rifarsi sferzando una stoccata al perverso cuoco, temevo che la gentildonna mi avrebbe schiaffeggiato. Ma la buona educazione ha prevalso sulla sua ira e si è limitata a chiedermi prove e spiegazioni. È rimasta ad ascoltare, con un sorriso annichilente che le serpeggiava tra le labbra, di come le aragoste in particolare, e i crostacei in generale, vengono tuffati vivi in acqua bollente, dove vengono arsi a fuoco lento perché, a quanto pare, patendo quel supplizio la loro carne diventa più saporita grazie alla paura e al dolore che provano.
E senza darle tempo di replicare, ho aggiunto che il granchio degustato da un altro dei commensali probabilmente era stato mutilato di una delle sue chele e restituito al mare, così che l’altra potesse crescergli in modo elefantiaco e placare meglio così gli appetiti degli amanti di un tale manicaretto. Giocandomi la vita — perché a quel punto gli occhi della signora in questione denunciavano intenzioni omicide — ho aggiunto qualche altro esempio dei più indescrivibili supplizi cui sono sottoposti infinità di animali terrestri, volatili, fluviali e marini per soddisfare le fantasie degli esseri umani. E ho concluso chiedendo alla signora se lei, coerente con i suoi principi, sarebbe stata disposta a votare in favore di una legge che proibisse per sempre la caccia, la pesca e ogni forma di utilizzo del regno animale che comportasse sofferenza.
La sua prevedibile risposta è stata che una cosa è uccidere animali per mangiarseli e potersi così sostentare e vivere, un diritto naturale e divino, diverso è ucciderli per puro sadismo. Le ho domandato se per caso avesse mai visto nella vita una corrida di tori. Ovviamente no e non l’avrebbe mai fatto anche per un miliardo. Le dissi che le credevo e che certamente né io né nessun patito della festa dei tori avrebbe mai obbligato né lei né nessun altro ad assistere a una corrida. E che l’unica cosa che chiedevamo era una forma di reciprocità: che lasciassero decidere a noi se andare o meno a vedere i tori, nell’esercizio della stessa libertà che lei metteva in pratica mangiandosi aragoste bruciate vive o granchi mutilati o indossando cappotti di cincillà, scarpe di coccodrillo o collane di ali di farfalla.
Le ho spiegato che la corrida, per alcuni, può rappresentare una forma di alimento spirituale ed emotivo tanto intenso e arricchente quanto un concerto di Beethoven, una commedia di Shakespeare o un poema di Vallejo. Nessuno può negare che la corrida di tori sia una festa crudele. Ma non lo è meno di altre infinite attività e azioni umane che riguardano gli animali, ed è una grande ipocrisia concentrarsi proprio sulla prima, e dimenticarsi od ostinarsi a non vedere queste ultime. Chi vuole proibire la tauromachia, in molti casi, e adesso nel caso di Barcellona, lo fa solitamente per ragioni che hanno a che fare più con l’ideologia e la politica che con l’amore verso gli animali.
Il toro da combattimento fino al momento in cui entra nell’arena è probabilmente l’animale più accudito e meglio trattato del creato, come hanno constatato tutti quelli che si sono presi la briga di visitare un allevamento di tori da corrida. Ma queste ragioni valgono poco o niente, di fronte a chi, a priori, proclama il proprio rifiuto e condanna una festa in cui scorre il sangue ed è presente la morte. Certo, è un suo diritto. Come lo è quello di muovere tutte le campagne possibili e immaginabili per convincere la gente a rinunciare ad assistere alle corride così che queste, per assenteismo, finiscano per languire fino a scomparire del tutto. Potrebbe succedere. Io credo che sarebbe un’enorme perdita per l’arte, la tradizione e la cultura nella quale sono nato; ma se deve avvenire così — nel modo più democratico, quello della libera scelta dei cittadini che votano contro la festa smettendo di andare alla corrida —bisognerebbe accettarlo.
Ciò che è intollerabile è il divieto, una cosa che mi sembra tanto illecita e tanto ipocrita come lo sarebbe proibire di mangiare aragoste o gamberetti con la motivazione che non si devono far soffrire i crostacei (ma i maiali, le oche e i tacchini invece sì). La restrizione della libertà che questo implica, l’imposizione autoritaria nell’ambito del piacere e della passione, è una cosa che mina un fondamento essenziale della vita democratica: quello della libera scelta. La festa dei tori non è un’attività eccentrica e stravagante, marginale per il grosso della società, praticata da infime minoranze. In Paesi come Spagna, Messico, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia e nel sud della Francia è una tradizione antica, profondamente radicata nella cultura, un marchio di identità che ha segnato in modo indelebile l’arte, la letteratura, gli usi, il folklore, e che non può essere estirpata con fare prepotente e demagogico, per ragioni politiche di corto orizzonte, senza ledere profondamente le conquiste della libertà, principio centrale della cultura democratica.
Vietare le corride, oltre a un oltraggio alla libertà, è anche giocare a fare finta, rifiutarsi di vedere a viso aperto quella verità che è inseparabile dalla condizione umana: che la morte ronza intorno alla vita e finisce sempre per sconfiggerla; che, nella nostra condizione, entrambe sono sempre intente in una lotta permanente e che la crudeltà — ciò che i credenti chiamano il peccato o il male— fa parte di essa, ma anche così la vita può essere bella, creativa, intensa e trascendente. Proibire i tori non attenuerà in nessun modo questa verità e, oltre a distruggere una delle manifestazioni più audaci e appariscenti della creatività umana, riorienterà la violenza ristagnata nella nostra condizione verso forme più crude e volgari, e magari verso il nostro prossimo. In effetti, perché inferocirsi contro i tori se è molto più eccitante farlo con i bipedi in carne e ossa che, per di più, strillano quando soffrono e in genere non hanno corna?