Il mio Giro

Le facce. Quelle che più ti colpiscono la mattina del Giro negli stanzoni dell’economato, sono le facce dei ragazzi. Li hai lasciati poche ore prima mentre gridavano che nel caso ci fosse stato maltempo loro non avrebbero avuto paura e la Chiocciola era, in ogni caso, spazzatura che fa schifo alla città. La Festa Titolare non li aveva lasciati indenni. Ultimi a lasciare Tommaso Pendola quasi all’alba, con le lampadine da 40 watt dei braccialetti che rilucevano nei loro occhi umidi, le braccia tese verso l’alto a dar maggior forza alla loro scoperta che la Piazza del Campo è di mattone vecchio e pertanto loro si dichiarano di Castelvecchio e tutti li devono rispettare. A vederli adesso, con gli occhi spenti, la faccia stanca e l’andamento di chi sembra andare al patibolo, si fa fatica a doverli rispettare. La mattina del Giro è sempre così. Una volta, non troppo tempo fa, c’era Ciro con Angela e prima ancora Galliano a svegliare quelle teste rintronate. Un risveglio traumatico ma salutare, come una bella doccia fredda. Tre scoglionati di primo livello rendevano quei minuti di vestizione simili a quelli di una caserma americana in quei film dove c’è il sergente che urla e minaccia le povere reclute indifese. Mi ricordo la prima volta che mi vestii, era il Giro del 1975. Le monture per i bambini e i ragazzi non esistevano, giravano solo i tartuchini dai venti anni in sù. La Contrada però aveva preso una decisione storica e aveva incaricato Annitina che abitava in Tommaso Pendola di cucire alcune monture per i più piccoli: una era la mia. Avevo fatto il corso tamburini a S. Agostino con Silvio Cinquegrana, unici allievi del maestro Aldo Tamburi. Due anni dopo rinnovammo le monture, quelle che quando ti mettevi a sedere ti sembrava di avere un busto in gesso, e con le calzemaglie elasticizzate in acrilico. Poi sono venute quelle attuali realizzate dalle nostre donne e da Waldemaro su disegno del Buzzichelli. Sono belle e tradizionali ma certo, il tempo è passato anche per loro e adesso, sono un po’ calate, e viene sempre pensato di dire che “levano il fisico anche a Michele Nuti”. Sarebbe il momento di pensare di rifarle ma chi ce l’ha il coraggio di dirlo al Priore? Sarebbe come un bambino che chiede al babbo disoccupato di comprargli il motorino nuovo. Ci possiamo sempre provare ma attenti allo scapaccione seguito da un “Ti sembra questo il momento?” E quindi ci si tiene le monture vecchie. E poi sai che ti dico? Quasi quasi è meglio così. Perché, dai, se ti casca il bitter Campari sul velluto giallo nessuno si incazza, tutt’al più il Bocci ti guarda male, ma non ti può dire niente. Adesso basta divagazioni, torniamo ai nostri ragazzi nell’economato.Eh già, ti guardi attorno e noti che la mattina ci sono solo ragazzi di vent’anni o poco più. Qualcuno manco ti conosce. I grandi che si vestono, in genere non solo sono anziani, ma anche parecchio ganzi per cui la mattina si ripassano le sbandierate a casa, sognando “giri di vita”, “alzate” e “raddoppi”. Il vero Giro infatti, secondo me è la mattina: pochi e che ci “sentono” parecchio.Il primo rullo sulla strada, davanti al Pendola, ad opera dell’entusiasta esordiente, è traumatico per tutti, sia per gli abitanti del rione che, sebbene siano pochi, non sono sordi, sia per gli entusiasti della sera prima attualmente in semicoma vigile. Dopo pochi minuti, si parte, con un unico obbiettivo, un solo pensiero in testa: la cioccolata della Selva. E’ quella che ti ridà l’energia giusta. E’ il nandrolone dei monturati, la creatina dell’alfiere, la dopamina del tamburino. La sola vista del vino rosso, messo lì gentilmente dai selvaioli, perché si sa che è tradizione, può causare un repentino ribaltamento dello stomaco pertanto è bene tenersi alla larga da bordolesi e gottini vari. Quella mezzoretta nella terrazza della Selva equivale ad un settimana da Messeguè e l’urlo sadico “Gnamoo!” dell’Economo per chiamare all’adunata e ripartire è una stilettata al cuore. La Selva è anche il luogo degli “assestamenti”, ovvero il momento in cui i “praticoni” del Giro approfittano della stanchezza altrui per scambiare cappelli, mazze, bandiere e tamburi che, in questa primissima parte di Giro, non sono ritenuti idonei per cotanto monturato. Il cappello è la vera tragedia, perché non sai mai come metterlo, se schiacciato lateralmente oppure gonfio come quello dei Puffi, o un po’ all’indietro per far uscire i capelli (chi ce l’ha). Sarebbe meglio senza, ma è impossibile fare cento metri senza che un delatore abbia già avvisato chi di dovere. Con la cioccolata in corpo si procede meglio e si è pronti per un primo raddoppio in via Franciosa che si presta bene perché è particolarmente stretta. Infatti è buffo verificare come negli spazi aperti come al Duomo, in Piazza della Posta o alla Lizza nessuno osi raddoppiare, tutti ligi e precisi con il semplice passo: nessuno si azzarda a prendere il via. Ma appena c’è una bella stradina un po’ più stretta o costeggiata da palazzi alti come in via delle Vergini o al Chiasso Largo, si sente partire una smitragliata di raddoppi di tutti i tipi.
Ci sono poi quelli, come il Pongo e Stefano Ricci (un tempo anche il Masiero) che immancabilmente sono tentati dal raddoppio nell’androne di un palazzo o su un cartello stradale. Essi fanno parte della categoria dei giocolieri del Giro. Tenerli buoni con passo e raddoppio ben ritmati è impossibile. 
Tra le mille varianti che possono inventare, i veri e propri cavalli di battaglia sono il raddoppio con il sonetto sulla pelle del tamburo e la battuta sull’altra mazza sul passo a vittoria Tra gli alfieri la categoria che più mi incuriosisce è quella dei “passeggiatori prudenti” ovvero coloro che, considerato che la maggior parte del tragitto del Giro è fatta a riposo senza fare l’otto, neanche durante la sbandierata si mettono in gioco e provano a fare due giri con la bandiera. L’unica differenza sostanziale con le citte che vengono dietro è  rappresentata dal fatto che sono monturati. Per il resto fanno le stesse cose. Dopo il Te Deum negli Oratori delle Alleate, durante la sbandierata, li vedi sgattaiolare via piano, senza farsi assolutamente notare, verso il luogo del rinfresco attirati dall’odore della maionese sul crostino. Vista l’ora, di solito, tale atteggiamento si manifesta prevalentemente nel Nicchio. Per il rinfresco tornano ad essere grandi protagonisti del Giro: meravigliose e ripetute alzate di birra, scambi perfetti di pizzette, salti col fiocco tra un tavolo e l’altro, un movimento continuo. Il tamburino, anche il più scarso, tutto questo riposo non se lo può permettere, come non si può permettere di sedere sulle panche delle Chiese delle Contrade, perché appena smette di suonare si deve intonare il Te Deum. Nel pomeriggio, come già detto, arrivano quelli ganzi. Qualcuno arriva direttamente nell’Onda perché almeno fa pranzo visto che si è appena alzato. Si arriva alle sei di sera nel Leocorno e “passeggiatori”, “ganzi”, “giocolieri” o normalissimi monturati tutti sono stravolti e su quel bel giardino verde ci starebbe di lusso una bella dormitina. “Gnamooo! E’ bell’è tardi, forza!”, l’urlo dell’Economo ci risveglia dal torpore e per l’ultima volta ci rinfiliamo la giacca della montura e ci sistemiamo alla meglio le calzemaglie. Chi vuol fare i suoi aggiustamenti, vale a dire gli scambi di capello, mazze etc., lo faccia ora o mai più perché adesso c’è la Lizza ed il rientro. La Banda e tutti i contradaioli sono lì ad aspettare la comparsa, è quasi buio, abbiamo accumulato un ritardo da paura e non c’è il tempo di fermarsi. Il Corso, via di Città, San Pietro ed infine il “miraggio” dei nostri braccialetti in via delle Murella. Nel nostro Oratorio si raduna tutta la Contrada e l’ultimo Te Deum si fonde insieme alle note del nostro Inno suonato dalla Banda che aspetta fuori. Il Giro è finito, siamo stanchissimi ma un po’ ci dispiace.
Giovanni Gigli (da Murella Cronache, giugno 2004)